Gianluca Festa, appena eletto sindaco, presentò con grande enfasi un programma articolato in sedici punti numerati, una sorta di agenda del cambiamento per Avellino.
Di quell’elenco, però, nessuno dei punti annunciati è stato realizzato in maniera concreta:
promesse rimaste sulla carta, iniziative mai decollate, progettualità disperse tra annunci e rinvii.
La sua vice, lungi dal prendere le distanze, ha avallato con la propria presenza quel progetto politico lontano dal programma, che nulla ha a che vedere con le reali esigenze della città.
Un atto che suona più come una scelta di opportunità che come una presa di responsabilità.
Ebbene, oggi entrambi si ripropongono perfino per la Regione, rilanciando la consueta retorica dei grandi piani e degli arrembaggi amministrativi.
Ma qui la domanda è semplice:
se non si è stati capaci di realizzare nulla nella propria città, con strumenti e poteri concreti a disposizione, che cosa ci si può attendere da un’eventuale esperienza regionale?
La risposta non richiede grande sforzo logico.
A parte il vantaggio economico e la visibilità personale, difficilmente la loro presenza in Consiglio regionale potrebbe tradursi in un beneficio reale per l’Irpinia.
Anzi, rischierebbe di riprodurre lo stesso copione, fatto di grandi promesse e risultati modesti o inesistenti.
L’impegno per una politica rinascimentale della nostra provincia, sbandierato in campagna elettorale, resterebbe dunque un sogno retorico, un esercizio di immaginazione più che un progetto di governo.
È ora che gli elettori smettano di accontentarsi delle parole e pretendano coerenza tra i programmi annunciati e le azioni compiute.
La credibilità politica non nasce dai proclami, ma dai risultati, e su quelli — purtroppo — il bilancio è sotto gli occhi di tutti.
In politica il passaggio da sinistra a destra, se avviene senza ritegno e senza una reale evoluzione ideale, non è solo incoerenza, è una forma di truffa morale.
Un artificio elaborato per meri fini personalistici, costruito sull’idea che l’elettore dimentichi in fretta e che il potere, alla fine, conti più della coerenza.
Un simile comportamento dovrebbe lasciare l’elettore interdetto, persino indignato, e spingerlo a valutare con severità l’inqualificabile leggerezza di certi percorsi politici.
E invece no.
Lor signori sono certi di poter contare su una fedeltà cieca, su quella pletora di affezionati che li seguirà comunque, ovunque, indipendentemente dalle bandiere sotto cui sfilano.È la logica del gregge, un consenso costruito sulla clientela e e non sulla convinzione, sulla simpatia personale più che sulla sostanza delle idee.
A questo punto, stabilire che cosa sia il peggio non è difficile.
Se persone come Festa, Nargi, Petitto...credono davvero di poter conservare consenso pur cambiando schieramento a seconda della convenienza, allora il problema non è solo loro.
È anche di una parte dell’elettorato che continua a premiare l’ambiguità invece della coerenza, l’apparenza invece dell’etica pubblica.
La politica non può essere un mestiere di travestimenti.
Chi cambia casacca come si cambia giacca tradisce non solo un’idea, ma il rispetto dei cittadini.
E quando la fiducia diventa merce di scambio, la democrazia perde la sua anima e resta solo il rumore del potere che gira a vuoto.
RDM





