Nel 1969, lo psicologo Philip Zimbardo condusse un esperimento tanto semplice quanto rivelatore. Lasciò due automobili identiche in due quartieri diversi: una nel Bronx, l’altra a Palo Alto.
Nel giro di poche ore, quella del Bronx fu saccheggiata e distrutta. Quella di Palo Alto rimase intatta per giorni, finché lo stesso Zimbardo non ruppe un finestrino.
Da quel momento, l’auto perfetta smise di esserlo: in poche ore, anche quella fu devastata da sconosciuti.
Da questo episodio nacque una delle intuizioni più potenti della psicologia sociale: il disordine genera disordine. Una finestra rotta, di Wilson e Kelling (1982), non è solo una crepa nel vetro, ma un messaggio silenzioso che dice: qui le regole non valgono più.
È il segnale che autorizza, inconsciamente, il degrado a moltiplicarsi.
La teoria delle finestre rotte ha influenzato per decenni la criminologia e le politiche urbane. Ma oltre la polizia e le statistiche, c’è un significato più intimo e collettivo: il degrado inizia sempre dalle piccole tolleranze.
Dalla carta gettata a terra, dall’insulto normalizzato, dall’ingiustizia accettata come inevitabile.
Tuttavia, il rischio opposto è altrettanto reale: usare la teoria come giustificazione per reprimere il diverso, o per colpevolizzare i luoghi invece delle cause profonde che li attraversano.
Siamo davvero plasmati dagli ambienti, o sono i nostri sguardi e i nostri pregiudizi a trasformare certi spazi in zone di disordine?
Forse la verità sta nel mezzo. Il confine tra ordine e caos è fragile, e si misura nei gesti quotidiani.
Prendersi cura di ciò che ci circonda non è un atto di conformismo, ma di responsabilità. Perché ogni finestra riparata, ogni gesto civile, ogni parola giusta detta al momento giusto, è una piccola forma di resistenza contro l’indifferenza.
RDM


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