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martedì 7 ottobre 2025

Avellino: il vuoto amministrativo tra storia e quotidiano

 


L’assenza della polizia municipale nelle strade di Avellino è ormai un fatto cronico. Non si tratta semplicemente di qualche turno mal gestito o di un organico insufficiente: è il segno visibile di un vuoto più ampio, che affonda le radici nella storia recente del capoluogo e nel suo rapporto malato con la politica.

Non è la prima volta che Avellino vive una condizione di sospensione tra regole scritte e prassi consolidate. Già negli anni Ottanta e Novanta, dopo il sisma del 1980, la città conobbe una fase di crescita disordinata, in cui i finanziamenti straordinari portarono risorse ma anche distorsioni, clientelismo e una cultura dell’emergenza trasformata in sistema. 

Allora come oggi, il controllo delle regole fu l’anello più debole della catena: i fondi scorrevano, ma la gestione quotidiana restava marginale.

Oggi, a distanza di decenni, ritroviamo lo stesso schema. Le strade sconquassate, le buche, la mancanza di manutenzione non sono solo problemi tecnici: sono il simbolo di un’amministrazione incapace di garantire l’ordinario. Se una città non riesce neanche ad assicurare sicurezza nella viabilità, come può pensare di affrontare sfide più grandi, come il rilancio economico o culturale?

La polizia municipale, in questo contesto, diventa la cartina di tornasole. Non è un corpo di vigili qualsiasi: dovrebbe rappresentare il presidio della legalità diffusa, l’argine contro il degrado urbano, l’istituzione che vigila sul rispetto delle regole minime di convivenza. La sua assenza è la metafora più chiara di un Comune che abdica al proprio ruolo.

Eppure, mentre i cittadini convivono con abusi edilizi, parcheggi selvaggi, inciviltà diffusa e infrastrutture logore, la politica locale e provinciale si concentra quasi esclusivamente sulle prossime elezioni regionali. È la riproposizione di un vizio antico: guardare sempre più in alto per interessi di parte, dimenticando la base su cui si regge la comunità. In questo modo, Avellino resta ostaggio di logiche elettorali che spostano l’attenzione dai problemi reali alla conta dei voti.

Il risultato è un paradosso: una città che continua a definirsi “capoluogo” ma che vive come un paese lasciato a sé stesso. Una cittadinanza che, tra rassegnazione e adattamento, sopravvive al disordine; una classe politica che si autoalimenta di retorica e propaganda, ignorando che il degrado urbano corrode lentamente il tessuto sociale.

Uscire da questa spirale non significa inventare miracoli, ma ricostruire l’essenziale. Servono:

  • un corpo di polizia municipale riorganizzato, visibile, presente nei quartieri, capace di far rispettare le regole;
  • politiche sociali serie, che affrontino povertà ed esclusione con progetti strutturali, non con eventi spot;
  • manutenzione costante delle infrastrutture, perché la sicurezza stradale non è un optional ma un diritto;
  • una politica meno autoreferenziale, capace di guardare al bene comune e non soltanto alle prossime candidature.

La storia recente di Avellino ci insegna che ogni volta che la città ha accettato il degrado come inevitabile, il prezzo è stato altissimo. Oggi la sfida è tornare a dare valore alla quotidianità, perché senza una base solida di regole, servizi e legalità, nessun progetto di futuro potrà mai reggere.

Avellino non ha bisogno di slogan o di grandi opere calate dall’alto. Ha bisogno di normalità. E la normalità, paradossalmente, è la rivoluzione più grande che si possa immaginare per un capoluogo che ha smarrito il senso della sua funzione.

RDM

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