Abbiamo scritto fin dal 2018 per esperienze dirette, del Pronto Soccorso al Moscati, in cui sedersi sul letto significava godere di una vasta fuoriuscita di sangue vivo, dal materasso compresso per il carico improvviso del paziente.
A parte la sparizione di denaro e oggetti d'oro, dalla borsa di qualche degente, si effettuavano i prelievi con il paziente seduto su uno di quei banchetti con ribaltina, manco per adulti, che puntualmente una volta appoggiato il braccio, il ripiano in legno si spalancava, e ogni provetta volava via tra la meraviglia e lo stupore.
Qualche anziano che tentava di scendere da solo dal letto dopo ore di richiami d'attenzione, perché bisognoso di un bagno, cadeva rovinosamente in terra, provocandosi ulteriori ferite.
Oggi, dopo sette anni, l'area destinata al trattamento delle emergenze, è peggiorato.
Il racconto del figlio dell'ingegnere Oscar Pesiri, ironia della sorte, che concorse alla realizzazione della Città Ospedaliera, è l'ultima drammatica testimonianza.
Da servizio d'aiuto alla sofferenza, in molti casi ne è divenuto causa.
Uno dei tanti crucci che abbiamo sempre denunciato agli ex primi cittadini, che si sono alternati, è stata la carenza cronica di attenzione ai meno abbienti, al futuro che prima o poi si sarebbe tramutato in presente.
Ma mai avremmo pensato di cadere dalla padella nella brace con gli ultimi tre sindaci, Paolo Foti, Gianluca Festa e il peggiore, Laura Nargi.
Ignorare la disperazione per interessarsi solo ed esclusivamente dell'effimero, non è solo un vuoto amministrativo, ma la dimostrazione plastica che l'umanità resta una parola salottiera, per gente che non meriterebbe l'inclusione nella società civile.
Di seguito riportiamo una lettera aperta di una persona che non conosciamo, ma in grado di salvare quella parte di noi che ancora pensa a Dio, quale esegeta delle anime che ne sono degne.
RDM
Per mesi non sono riuscita a parlare ma leggendo te, caro Fabrizio Pesiri, ho sentito che non si può più tacere, perché “il silenzio non protegge”.
Il 18 gennaio 2024, mio padre, persona diventata fragile mentalmente e non in grado di interloquire adeguatamente con gli altri, dopo un passato di gloriosa generosità verso tutti, viene ricoverato all’Ospedale Moscati di Avellino per una frattura al femore.
Da quel momento, inizia un incubo che nessuno dovrebbe mai vivere.
Mio padre viene lasciato per ore, poi per giorni, nel pronto soccorso. Su un lettino con un cuscino di plastica sotto la testa e un telo che a malapena gli copre il corpo.
Ogni tanto, con indifferenza, qualche infermiere si aggira nei paraggi. Uno di loro sbraita “ questo deve essere operato” e quindi, in sostanza, può tranquillamente rimanere lì, parcheggiato, in lacerante attesa, senza cure, senza assistenza specifica
Chiedo, attendo, prego, rispettosamente, di ricevere qualche informazione ma le parole mancano, o, quando arrivano, sono taglienti: brusche, fredde, prive di tatto e chiarezza. Mi fanno sentire quasi colpevole anche solo di voler sapere.
Il Pronto Soccorso, che dovrebbe essere il primo presidio di tutela, si rivela una terra di nessuno, uno spazio sospeso, fuori da ogni giurisdizione morale e persino giuridica, dove ogni responsabilità ma anche ogni basilare necessità di sopravvivenza per un indifeso sembra dissolversi sotto il peso dell’“emergenza”.
In quel “non luogo” non valgono più i diritti, non esiste l’umanità, tutto è giustificabile, figuriamoci l’abbandono. Rimaniamo ore in attesa. Sappiamo bene che un intervento al femore deve essere effettuato entro 36-48 ore, soprattutto in soggetti fragili. Ma niente. Mio padre trascorre quattro giorni in “Mancato” Soccorso, poi finalmente il trasferimento in Geriatria. E lì, altri due giorni di silenzi.
Papà chiede aiuto, vuole andarsene. Ha paura. Lo sussurra a mia madre con il poco fiato che gli rimane. Le chiede da dove è entrata, forse cercando con la mente ulteriormente logorata una via di uscita a lui negata. Lui sa già che quel luogo non lo avrebbe salvato.
La sera del 22 riesco finalmente a parlargli. Gli tengo la mano, la nostra forma di comunicazione più profonda. Gli sussurro che presto tutto passerà, che torneremo a vivere.
Mi sorride. Ancora una volta, prova lui a dare forza a me.
Quando vado via, noto sotto il suo letto una sacca piena di sangue. Mi dicono che è normale.
Ancora oggi mi chiedo se ce l’avrei fatta io, sana e giovane, cinque giorni in quelle condizioni.
Conosco la risposta.
Quella notte sogno mio padre. Mi chiama. Sento nitidamente la sua voce.
Mi sveglio di soprassalto e corro in ospedale. Alle cinque del mattino sono lì.
Chiedo garbatamente spiegazioni perché la condizione di mio padre non mi convince. Una Dottoressa mi liquida in pochi secondi:
“Sta bene. Domani lo operano. Se vuole, può salutarlo, ma da lontano.”
Da lontano.
Lo saluto da lontano. Ma i suoi occhi non sono più gli stessi.
Sento che inizia a sentirsi abbandonato anche da noi.
Il giorno dopo, il 24 Gennaio, viene finalmente operato. Aspettiamo ore in un punto sbagliato, per via di un’indicazione errata.
Quando lo rivediamo in reparto, non è più lui.
“È normale”, ci dicono. “È l’effetto del post-operatorio.”
Ma io sento che l’ho perso.
Non so più dove sia.
Il giorno successivo ci comunicano che si è stabilizzato.
Ci attiviamo subito per trovare un posto in una clinica di riabilitazione. Corriamo, ci mettiamo in moto,
tutto è difficile, tutto è complesso. Ma ci aggrappiamo alla speranza: finalmente “Tornerà”, ci diciamo.
Non è tornato più.
Il 28 gennaio, esattamente un anno e mezzo fa, alle ore 16:30, ci chiamano per comunicarci il decesso.
Arresto cardiaco, dicono.
Una formula preconfezionata, un pass-par-tout per chiudere ogni discorso.
Nessun accenno al ritardo nell’intervento.
Nessuna riflessione sull’assenza di assistenza per giorni.
Nessun dubbio sull’effetto devastante di quella solitudine, di quella paura.
Solo: “Venite a ritirare le sue cose”.
Non accuso tutti. So che ci sono professionisti competenti che si portano dentro il peso di ciò che vedono.
Ricordo con affetto gli occhi di un giovanissimo medico, forse proprio lui ha gestito gli ultimi minuti di mio padre. Le mie lacrime hanno incontrato le sue, per un istante.
Forse anche lui si è sentito inadeguato e probabilmente anche su questo bisognerebbe porsi qualche domanda.
Non si fa mai davvero pace con un lutto. È un dolore irrisolvibile. Ma l’ingiustizia inflitta nei momenti di fragilità è straziante e inaccettabile.
C’è sempre una giustificazione pronta: la carenza di personale, la cattiva politica, le famiglie assenti, il sistema che non funziona. Tutto vero.
Ma c’è qualcosa che viene prima di tutto: la coscienza personale e la direzione politica, l’impostazione di fondo che si sceglie di privilegiare in certi contesti. La sensibilità, il rispetto, l’attenzione alla fragilità non sono velleità, ma parti essenziale della cura.
Non è accettabile anche solo sospettare che con gli anziani i deboli, gli “ininfluenti “ci si possa impegnare di meno, tanto “hanno poco da perdere”, tanto “nessuno potrà recriminare”.
La vita e la morte si danno per scontate.
Ma come si vive,
come si muore,
e come si fanno morire gli altri,
questo no.
Questo pesa. Eccome se pesa.
Chi ha lasciato mio padre solo,
chi ha evitato lo sguardo,
chi ha scelto il silenzio e l’indifferenza,
chi ha risposto con fastidio invece che con cura,
resta per me il principale responsabile della sua morte.
Non si può normalizzare l’abbandono, l’inettitudine, l’approssimazione, l’indelicatezza.
Non cerco vendette ma umanità
Quella che mio padre non ha ricevuto.
Quella che nessuno dovrebbe perdere, soprattutto nei contesti più difficili.
Esistono delle priorità che nessuna giustificazione può cancellare.
La misura della civiltà di un luogo si vede nei suoi spazi di sofferenza. Un futuro più giusto per i nostri figli, se mai in questa città lo avremo, potrà nascere solo da questa consapevolezza.
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