Forza Italia ha scelto di mantenere nel proprio simbolo la parola Berlusconi, una decisione che non appartiene semplicemente alla memoria, ma alla volontà di radicare la propria identità in un leader che continua a rappresentare il baricentro politico e simbolico del partito.
È una scelta che segnala la difficoltà a costruire una leadership autonoma e, soprattutto, a fare i conti con le ombre del passato.
Se è vero che Silvio Berlusconi non è mai stato condannato per mafia, è altrettanto vero che la Corte di Cassazione, nella sentenza sul suo collaboratore Marcello Dell’Utri, ha ricostruito un rapporto di contiguità tra il gruppo imprenditoriale berlusconiano e ambienti mafiosi negli anni Ottanta.
Una pagina storica complessa, che avrebbe richiesto un’elaborazione pubblica e non un congelamento simbolico.
Il quadro politico attuale è segnato da un problema più ampio, la distanza crescente tra legalità formale e responsabilità istituzionale.
L’Italia non è nuova a figure pubbliche coinvolte in procedimenti giudiziari, ma ciò che colpisce è la normalizzazione di queste situazioni come se fossero incidenti trascurabili.
La vicenda irpina che coinvolge l’ex sindaco Gianluca Festa e l’ex vicesindaco Laura Nargi, nell’ambito dell’inchiesta nota come Dolce Vita, si inserisce esattamente in questo contesto.
Le accuse, che vanno dalle pressioni negli appalti ai rapporti privilegiati in procedure amministrative, dovranno naturalmente essere accertate in sede processuale.
Tuttavia, il punto politico non riguarda l’esito delle indagini, ma l’assenza di una cultura della sospensione volontaria dagli incarichi quando la funzione amministrativa è toccata da sospetti gravi.
È un principio di tutela dell’istituzione, non dell’imputato.
Lo stesso vale sul piano nazionale.
Augusta Montaruli, ex sottosegretario di Fratelli d'Italia, condannata in via definitiva per peculato, ha lasciato il governo ma non ha rinunciato ai ruoli parlamentari, arrivando a sedere nella Commissione di Vigilanza Rai, organismo che dovrebbe garantire autonomia e imparzialità del servizio pubblico.
Il paradosso è evidente: chi è stato condannato per l’uso improprio di fondi pubblici è chiamato a vigilare (?) sulla correttezza dell’informazione pubblica.
Il problema non è l’orientamento politico dei singoli partiti, ma la crisi del principio di decoro istituzionale.
Quando chi ricopre ruoli di garanzia non percepisce la necessità di essere irreprensibile — o almeno di mostrarsi tale — il messaggio che arriva al Paese è che la legge è un limite negoziabile e la politica è uno spazio riservato a chi sa muoversi nelle sue zone d’ombra.
Se i sondaggi confermano che la destra di governo continua a radicarsi, la domanda da porsi non è solo politica ma culturale: che cosa ci aspettiamo da chi ci rappresenta?
E quanto siamo disposti a tollerare in nome dell’identità di schieramento?
Restituire dignità alle istituzioni non richiede grandi riforme, ma regole semplici quali la sospensione dagli incarichi di controllo in caso di condanna definitiva;
trasparenza nei processi di nomina; gestione degli appalti con sistemi automatizzati e verificabili; rotazione degli incarichi apicali negli enti locali.
La credibilità di una democrazia si misura nella coerenza quotidiana, non nelle dichiarazioni solenni.
Finché la politica continuerà a considerare la questione morale un ingombro, a rimetterci non saranno i partiti, ma la fiducia dei cittadini nella cosa pubblica.
RDM
Nessun commento:
Posta un commento